Lo State Immunity Act 1978 conferisce agli altri Stati l’immunità dalla giurisdizione britannica nelle controversie di lavoro se, al momento della stipula del contratto, il dipendente interessato non è né cittadino britannico né abitualmente residente nel Regno Unito. Nel caso di specie le ricorrenti erano due donne di cittadinanza marocchina, dipendenti delle ambasciate di Sudan e Libia a Londra, assunte come domestiche. Ritenendo di essere state licenziate ingiustamente, le due donne avevano presentato ricorso all’Employment Tribunal che lo aveva respinto richiamando l’immunità sovrana riconosciuta a Libia e Sudan a norma della suddetta legge del 1978; viceversa, l’Employment Appeal Tribunal aveva accolto di seguito il ricorso avverso tale pronuncia dichiarando che la normativa del 1978, che consentiva il richiamo all’immunità sovrana, era incompatibile con l’art. 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’UE; decisione, quest’ultima, confermata dalla Court of Appeal che dichiarava, inoltre, il disposto legislativo non conforme all’art. 6 Cedu.

Adita dal Ministro degli affari esteri avverso la decisione della Corte d’appello, la Corte suprema ha respinto il ricorso dichiarando che le previsioni legislative non trovano alcun riscontro nel diritto internazionale. Allo stato, malgrado un ampio consenso degli Stati intorno all’immunità sovrana, non può ritenersi sussistere una norma consuetudinaria che sancisca l’immunità assoluta. Nel diritto consuetudinario internazionale, infatti, uno Stato può invocare l’immunità se il ricorso è fondato su atti di natura sovrana e l’impiego di personale addetto alle pulizie è indubitabilmente da considerarsi un atto privato anziché un atto di natura sovrana. Inoltre, il disposto legislativo, alla sezione 4(2)(b), fa dipendere l’immunità di uno Stato straniero dalla nazionalità o dalla residenza del ricorrente alla data della stipula del contratto, condizioni queste che non richiamano affatto la suddetta distinzione tra atto di natura privata e atto di natura sovrana. Si tratta, pertanto, di un approccio che, seppur adottato anche da altri Stati, non trova alcun fondamento nel diritto consuetudinario internazionale.

Il disposto legislativo, dunque, non può essere interpretato in maniera tale da conferire agli Stati un’immunità assoluta né estenderla, come di contro previsto dalla sezione 16(1)(a) della legge suddetta, al personale integrativo delle missioni dello Stato ospite. Inoltre, l’art. 7 della Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche – che impedisce alle Corti di interferire con la nomina dei membri di una missione diplomatica − non si applica ai ricorsi in cui si richiede un risarcimento anziché il reintegro nel posto di lavoro.

Pertanto,  secondo i giudici supremi né la Libia né il Sudan potevano invocare l’immunità nei casi di specie; lo State Immunity Act 1978, laddove escluda che i dipendenti stranieri di un’ambasciata estera con sede a Londra possano ricorrere ad un giudice se licenziati, è incompatibile sia con l’art. 6 Cedu sia con l’art. 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’UE.

 

Il testo completo della sentenza è disponibile al seguente link:

uksc-2015-0063-judgment